RESPONSABILITA' MEDICA - Tribunale Ordinario di Rovigo 26 luglio 2022

 REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Tribunale Ordinario di Rovigo

Il Tribunale Ordinario di Rovigo, in composizione monocratica, in persona del giudice dott.ssa Federica Abiuso, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel procedimento iscritto al n.. 786/2017 R.a.c.c., vertente

TRA

A.M.T., CF (...), rappresentato e difeso come in atti dall'avv. A.M.;

F.M., CF (...), rappresentato e difeso come in atti dall'avv. A.M.;

F.T., CF (...), in proprio e anche quale genitore esercente la responsabilità genitoriale sulle figlie T.D. CF (...), E T.A. CF (...), rappresentato e difeso come in atti dall'avv. A.M.;

F.E., CF (...), rappresentato e difeso come in atti dall'avv. A.M.;

F.E., CF (...), rappresentato e difeso come in atti dall'avv. A.M.;

ATTORI

E

AZIENDA U. (omissis), (P. IVA (...)), rappresentato e difeso come in atti dall'avv. S.G.

CONVENUTO

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

Con atto di citazione ritualmente notificato T.A.M., F.M. e T., T.D. e A., F.E. ed E., (rispettivamente moglie, figli, nipoti e sorelle del de cuius) convenivano in giudizio l'Azienda U. (omissis), per sentirla condannare al risarcimento dei danni subiti ed accertati in sede di procedimento ex art. 696 bis c.p.c., (R.G. 1034/2015) dal CTU dr. G.Q., per responsabilità medica causante il decesso del sig. F.G., occorso in data 12.03.2013. F.G. era stato ricoverato, in più riprese, presso il reparto di Chirurgia Generale dell'ospedale civile di (omissis), dal maggio 2010 per duplice neoplasia del colon traverso e del retto medio. L'addebito mosso dalle parti attrici consisteva essenzialmente nell'omissione relativa al mancato follow-up post-operatorio mediante esecuzione di controllo con TAC toraco-addominale-pelvica ogni sei mesi dopo che, all'esito dell'intervento di resezione parziale del colon trasverso ed emicolectomia sinistra avvenuto in data 25.05.2010, l'esame istologico condotto sul tratto di colon-retto asportato, refertato il 18.06.2010, aveva dimostrato la presenza di un adenocarcinoma del retto e di vari adenomi nel rimanente specimen colico. La suddetta omissione, protrattasi per 17 mesi (ossia fino a quando la TAC eseguita in data 18.11.2011 documentò un tumore al quarto stadio in fase metastatica), avrebbe impedito di effettuare la stadiazione generale della neoplasia e, conseguentemente, di intervenire con trattamenti ablativi non chirurgici o comunque meno radicali di quelli effettuati nel gennaio 2012, con correlato, benché relativo, miglioramento prognostico. Gli attori hanno quindi richiesto il risarcimento dei danni patiti, iure proprio e iure hereditatis, nei termini di danno tanatologico e biologico terminale; danno biologico; danno da perdita del rapporto parentale; danno patrimoniale per spese funerarie. Gli attori hanno allegato la totale assenza di informative circa le verifiche e i controlli (c.d. follow up) da eseguirsi nella fase post-operatoria, e chiesto quindi il risarcimento anche della relativa voce di danno.

Si è costituita in giudizio l'Azienda U. (omissis), contestando le allegazioni attoree e chiedendo il rigetto delle domande avanzate; ha specificato che il defunto G.F. era stato seguito, nei mesi immediatamente precedenti la morte, anche dal Centro di Oncologia dell'Ospedale di P., ritenendo che tale circostanza avesse un'evidente incidenza causale ai fini della corretta attribuzione delle eventuali responsabilità per la ritenuta perdita di

chance di sopravvivenza del paziente, dal momento che il F. era stato seguito dall'Ospedale di (omissis) soltanto fino al 16.02.2011, data della sua dimissione, di modo che le successive cure e i successivi controlli eseguiti dal Centro di P. erano tali da interrompere il nesso di causa o implicare una responsabilità concorsuale per le condotte oggetto di doglianza; ha evidenziato come le risultanze della CTU non consentissero di ascrivere la responsabilità all'Azienda S. convenuta, dovendo riferirsi l'addebito al Centro di P.; ha contestato le conclusioni a cui è giunto il CTU in sede di procedimento per ATP e la letteratura scientifica dallo stesso utilizzata. L'Azienda convenuta ha chiesto di disporre una rinnovazione della CTU o in alternativa una chiamata a chiarimenti del CTU. Da ultimo, ha contestato il quantum risarcitorio richiesto dagli attori. Ha quindi chiesto il rigetto delle domande attoree, o in subordine la riduzione del risarcimento richiesto.

La causa è stata istruita mediante acquisizione della relazione peritale svolta nell'ambito del procedimento per Atp, assegnazione dei termini ex art. 183, 6 co., c.p.c., produzione di documenti e escussione di testimoni, oltre a disporre che il CTU rendesse chiarimenti su alcuni punti controversi indicati dall'Azienda S. convenuta.

Ritenuta la causa matura per la decisione, le parti hanno precisato le proprie conclusioni in via telematica in vista dell'udienza del 16.02.2022, data in cui il Giudice ha trattenuto la causa in decisione e assegnato i termini ex art. 190 c.p.c.

Tutto ciò premesso, si osserva quanto segue.

1. Premessa

Per consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, il giudice nel motivare concisamente la sentenza secondo i dettami di cui all'art. 118 disp. att., non è affatto tenuto ad esaminare specificamente ed analiticamente tutte le questioni sollevate dalle parti, ben potendosi egli limitare alla sola trattazione delle questioni - di fatto e di diritto - "rilevanti ai fini della decisione" concretamente adottata, di modo che le restanti questioni non trattate non andranno necessariamente ritenute come "omesse", ben potendo esse risultare semplicemente assorbite (ovvero superate) per incompatibilità logico-giuridica con quanto concretamente ritenuto provato dal giudicante.

Difatti, si richiama sul punto il principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, in base a cui "la conformità della sentenza al modello di cui all'art. 132 n. 4 c.p.c., e l'osservanza degli artt. 115 e 116, c.p.c., non richiedono che il giudice di merito dia conto dell'esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettate dalle parti, essendo necessario e sufficiente che egli esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, offrendo una motivazione logica ed adeguata, evidenziando le prove ritenute idonee a confortarla, dovendo reputarsi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l'iter argomentativo seguito" (Cassazione civile , sez. III, 27 luglio 2006, n. 17145).

Inoltre, sempre in via preliminare, vengono in questa sede integralmente richiamate le ordinanze istruttorie rese in corso di causa e quindi vengono rigettate tutte le istanze istruttorie riproposte dalle parti in sede di precisazione delle conclusioni.

Nel merito le domande proposte dagli attori sono risultate fondate solo in parte, nei limiti di quanto si va ad esporre.

Innanzitutto, si rileva come gli attori abbiano agito, sulla base della Consulenza Tecnica depositata nell'ambito del procedimento ex art. 696 bis RG 1034/2015, chiedendo nell'atto di citazione: "previo ogni accertamento occorrendo, condannarsi, per quanto su esposto, Azienda U. (omissis) in persona del suo legale rappresentante pro tempore, a risarcire agli attori tutti i danni subiti di natura patrimoniale e non patrimoniale, jure proprio e jure hereditatis, nella misura indicata nell'atto di citazione o che risulterà accertata nel corso dell'istruttoria ovvero che sarà ritenuta di giustizia".

Considerando che gli attori non hanno esplicitato nelle proprie conclusioni le singole somme risarcitorie richieste, rinviando sul punto alla misura indicata nel corpo dell'atto di citazione, e considerato che il pedissequo rinvio all'atto di citazione è stato operato propriamente anche in funzione di allegazione e compiuta

individuazione delle poste di danno richieste, si rileva in questa sede che le voci di danno richieste esplicitamente in atto di citazione dagli attori risultano essere le seguenti: 1) danno tanatologico; 2) danno biologico; 3) "personalizzazione del danno", ossia (nel relativo paragrafo vi è come unico il riferimento il) danno da perdita del rapporto parentale; 4) carenza di un idoneo consenso scritto; 5) spese funerarie, spese legali stragiudiziali, CTP.

A tale proposito, quindi, si rileva che gli attori hanno operato una specifica suddivisione in paragrafi relativi alle singole voci di danno (da intendersi, come noto, come c.d. danni-conseguenza) richieste, iure hereditatis o iure proprio, illustrando invece nella prima parte del proprio atto di citazione la "fonte" dei danni di cui hanno chiesto il ristoro, ossia il danno-evento subito dal defunto G.F. e rappresentato, nel caso di specie, esclusivamente (come si esporrà meglio in seguito), dal danno-evento della perdita di chance di sopravvivenza o di maggiore durata della vita residua del F., non trattandosi, invece, di un'ipotesi di danno-evento morte.

A tale riguardo, risulta inammissibile, in quanto tardiva e mai compiutamente articolata entro i limiti preclusivi previsti ex-lege, la domanda e la compiuta richiesta risarcitoria relativa al danno non patrimoniale da perdita di chance iure hereditario.

Difatti nell'atto di citazione gli attori hanno chiesto in via generica "tutti i danni subiti di natura patrimoniale e non patrimoniale iure proprio e iure hereditatis nella misura indicata nel presente atto", non avendo tuttavia mai esplicitamente allegato e domandato in sede di atto di citazione (neppure entro la prima memoria ex art. 183, 6 co., c.p.c.) il risarcimento del danno da perdita di chance di sopravvivenza iure hereditario, e non essendo tale domanda neppure desumibile dal tenore dell'atto di citazione, ove il danno non patrimoniale da perdita di chance è stato compiutamente articolato dagli attori soltanto nei termini di danno parentale, da interpretarsi correttamente nel danno da perdita di chance di poter godere più a lungo del rapporto parentale con il proprio congiunto.

Come noto, la domanda di risarcimento del danno da perdita delle chance di guarigione, in conseguenza di una negligente condotta del medico che l'ebbe in cura, deve essere formulata esplicitamente, e non può ritenersi implicita nella richiesta generica di condanna del convenuto al risarcimento di "tutti i danni" causati dalla morte della vittima (Cass. civ. sez. III, 29 novembre 2012, n.21245).

Nel caso di specie, quindi, ogni eventuale specificazione operata sul punto dagli attori soltanto in comparsa conclusionale risulta inammissibile in quanto tardiva, trattandosi appunto di verificare ed appurare la sussistenza degli altri danni esplicitamente dagli stessi richiesti in via tempestiva, ossia, come visto: 1) danno tanatologico richiesto iure hereditatis (o meglio da intendersi come danno morale o biologico terminale o catastrofale); 2) danno biologico subito dal defunto F. e richiesto iure hereditatis; 3) "personalizzazione del danno", ossia voce di danno indicata con tale locuzione in sede di atto di citazione, ma da interpretarsi correttamente come richiesta di risarcimento del danno (conseguenza) da perdita di chance di godere più a lungo del rapporto parentale con il proprio congiunto; 4) danno da carenza di un idoneo consenso scritto; 5) spese funerarie, spese legali stragiudiziali, CTP.

1.1 Premessa generale: sulla responsabilità della struttura sanitaria, natura e onere della prova

In via preliminare, risulta provata la qualità di eredi del defunto G.F., rivestita dalla moglie A.M.T. e dalla figlia T.F., avendo per contro il figlio M. rinunciato all'eredità paterna, come documentato dalle parti attrici.

Come noto, la responsabilità della società convenuta, la quale si occupa dello svolgimento di attività sanitaria, va ricondotta all'area contrattuale.

Deve, infatti, rilevarsi che la consolidata giurisprudenza di legittimità e di merito a partire dagli anni novanta ha gradualmente fatto confluire tutte le fattispecie di responsabilità in campo sanitario nell'ambito della responsabilità contrattuale, con la conseguenza dell'applicazione dei correlativi regimi della ripartizione dell'onere della prova, del grado della colpa e della prescrizione, tipici delle obbligazioni da contratto d'opera professionale, quanto alla struttura sanitaria, ravvisando la fonte di tale tipo di responsabilità nella conclusione, al momento della "accettazione" del paziente nella struttura, di un contratto di prestazione d'opera atipico di spedalità avente ad oggetto l'obbligo della struttura di adempiere sia prestazioni principali di carattere sanitario

che prestazioni secondarie ed accessorie quali quelle assistenziali e latu sensu alberghiere. La responsabilità dell'ente ha, così, assunto carattere contrattuale in relazione sia a fatti di inadempimento propri della struttura che alle condotte dei medici dipendenti, in applicazione dell'art. 1228 c.c. sulla responsabilità del debitore per fatti dolosi o colposi degli ausiliari.

L'affermata natura contrattuale della responsabilità della struttura sanitaria ha poi trovato l'ulteriore conforto delle Sezioni Unite Civili della Suprema Corte di Cassazione, le quali con la ormai notissima sentenza dell'11 gennaio 2008, n. 577, hanno prestato sostanziale adesione a tale opzione ermeneutica.

Anche la legge di riforma della responsabilità sanitaria (L. 8 marzo 2017, n. 24 pubblicata in Gazzetta Ufficiale 17 marzo 2017, n. 64 e recante "Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie"), ha ribadito che la struttura sanitaria risponde ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c. (mentre afferma che i sanitari rispondono del loro operato in base all'art. 2043 c.c. a meno che non abbiano agito nell'adempimento di una obbligazione direttamente assunta con il paziente).

Si ritiene, pertanto, che nel caso in esame, concernente un'ipotesi di responsabilità di società che svolge prestazioni di natura sanitaria, debbano applicarsi i criteri propri della responsabilità contrattuale con conseguente applicazione della relativa normativa in termini di prescrizione, grado della colpa, ripartizione dell'onere della prova.

Difatti, come anche di recente ribadito dalla Suprema Corte, "in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, ai fini del riparto dell'onere probatorio, l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l'aggravamento della patologia o l'insorgenza di un'affezione ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato; competerà, poi, al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante" (Cass., Sez. VI - 3, Ord., 29-03-2018, n. 7884).

Tuttavia, occorre precisare che, in base ai principi generali, il rapporto contrattuale tra il paziente e la struttura sanitaria o il medico ha effetto esclusivamente tra le parti del contratto, di modo che tale tipo di responsabilità può essere riferita soltanto al danno fatto valere dagli attori, prossimi congiunti del de cuius, iure hereditario.

Per contro, per i danni richiesti dagli attori iure proprio, la responsabilità della struttura sanitaria è di natura extracontrattuale, non rientrando i congiunti del paziente deceduto tra i terzi protetti dal contratto (cfr. da ultimo Cass. Civ., ord. sez. 3-6, 6 luglio 2021, n. 21404; Cass. Civ. sez. 3, 9 luglio 2020, n. 14615).

In entrambi i casi, la prova del nesso causale tra la condotta e l'evento di danno risulta posta in capo al soggetto danneggiato.

Occorre operare una breve premessa anche in punto di onere della prova del nesso di causalità in ambito di responsabilità medica.

Difatti, per quanto attiene alla verifica del presupposto preliminare della sussistenza del nesso di causalità va sottolineato che "dal punto di vista del danneggiato la prova del nesso causale quale fatto costitutivo della domanda intesa a far valere la responsabilità per l'inadempimento del rapporto curativo si sostanzia nella dimostrazione che l'esecuzione del rapporto curativo, che si sarà articolata con comportamenti positivi ed eventualmente omissivi, si è inserita nella serie causale che ha condotto all'evento di preteso danno, che è rappresentato o dalla persistenza della patologia per cui si era richiesta la prestazione o dal suo aggravamento fino anche ad un esito finale come quello mortale o dall'insorgenza di una nuova patologia che non era quella con cui il rapporto era iniziato" (Cass. 12 settembre 2013, n. 20904). Grava quindi sul creditore l'onere di provare il nesso di causalità fra l'azione o l'omissione del sanitario ed il danno di cui domanda il risarcimento. Non solo il danno ma anche la sua eziologia è parte del fatto costitutivo che incombe all'attore di provare. Ed invero se si ascrive un danno ad una condotta non può non essere provata da colui che allega tale ascrizione, la riconducibilità in via causale del danno a quella condotta.

La Suprema Corte, più di recente, (Cass. 28991/19) ha chiarito che "Il creditore di prestazione professionale che alleghi un evento di danno alla salute, non solo deve provare quest'ultimo e le conseguenze pregiudizievoli che ne siano derivate (c.d. causalità giuridica), ma deve provare anche, avvalendosi eventualmente pure di presunzioni, il nesso di causalità fra quell'evento e la condotta del professionista nella sua materialità, impregiudicata la natura di inadempienza di quella condotta, inadempienza che al creditore spetta solo di allegare(…). Una volta che il creditore abbia provato, anche mediante presunzioni, il nesso eziologico fra la condotta del debitore, nella sua materialità, e l'aggravamento della situazione patologica o l'insorgenza di nuove patologie, sorgono gli oneri probatori del debitore, il quale deve provare o l'adempimento o che l'inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione a lui non imputabile (…). Emerge così un duplice ciclo causale, l'uno relativo all'evento dannoso, a monte, l'altro relativo all'impossibilità di adempiere, a valle. Il nesso di causalità materiale che il creditore della prestazione professionale deve provare è quello fra intervento del sanitario e danno evento in termini di aggravamento della situazione patologica o di insorgenza di nuove patologie; il nesso eziologico che invece spetta al debitore di provare, dopo che il creditore abbia assolto il suo onere probatorio, è quello fra causa esterna, imprevedibile ed inevitabile alla stregua dell'ordinaria diligenza di cui all'art. 1176, comma 1, ed impossibilità sopravvenuta della prestazione di diligenza professionale (art. 1218)".

In particolare, per ciò che concerne la prova del nesso di causalità, si rileva che recentemente la Corte di Cassazione ha ulteriormente chiarito e confermato la giurisprudenza già consolidata sul punto.

Difatti, la Suprema Corte nella propria ordinanza 10345/2021 ha chiarito che il paziente danneggiato non dovrà soltanto allegare l'inadempimento del sanitario rispetto alla prestazione professionale dedotta in obbligazione (cioè il solo mancato rispetto delle leges artis), ma dovrà altresì provare anche che tale condotta inadempiente ha determinato la lesione della salute del paziente (cioè la violazione dell'interesse presupposto). In altri termini, il nesso di causalità tra condotta e evento dannoso (c.d. causalità materiale) è elemento costitutivo della fattispecie e dovrà essere provato dal paziente danneggiato: egli dovrà dimostrare il collegamento materiale causa-effetto tra la condotta del sanitario e l'aggravamento della propria patologia o l'insorgenza di una nuova patologia.

Quindi, per quanto concerne la prova del nesso di causalità, la Suprema Corte ha chiarito che l'accertamento del nesso di causalità nelle fattispecie di omessa diagnosi deve essere effettuato nei seguenti termini: deve essere mentalmente ipotizzata la condotta dovuta secondo le leges artis ma omessa dal sanitario e quindi verificare se l'evento dannoso si sarebbe verificato ugualmente o meno. Nel caso in cui l'evento dannoso si sarebbe comunque verificato o gli effetti dannosi sarebbero stati comunque sostanzialmente gli stessi che il paziente ha subito, la condotta omissiva non è causalmente riconducibile all'evento dannoso, che quindi dipende da altri fattori causali diversi dalla condotta omissiva del sanitario. Nel caso in cui, invece, l'evento dannoso non si sarebbe verificato o comunque sarebbe stato limitato nella sua portata o differito nel tempo in misura non irrisoria, la condotta omessa deve ritenersi collegata causalmente all'evento dannoso.

In ultimo, si rileva che nei casi come quello in esame, l’'attore danneggiato è, invece, corrispondentemente esonerato dal provare la negligenza del sanitario: si può infatti limitare ad allegare condotte imperite attive od omissive del medico, quali species dell'inadempimento agli obblighi assunti con il contatto negoziale ovvero con il contratto di spedalità, consistenti nella prestazione di assistenza diagnostica e terapeutica conformata alla miglior scienza, all'esperienza e alla perizia richiesta dalla natura e dalle caratteristiche degli interventi necessari, ovvero comunque alla particolare situazione clinica-patologica. È, per contro, onere del medico provare che l'inadempimento è stato dovuto a causa non imputabile a propria negligenza o imperizia.

In altre parole, solo dopo aver riscontrato l'esistenza di un nesso eziologico deve essere affrontato il tema della esistenza della colpa e dell'onere della prova.

In particolare, come si vedrà nel paragrafo di riferimento, gli attori che agiscono per il ristoro dei danni iure hereditatis, saranno onerati del raggiungimento della suddetta prova del nesso di causalità, nei termini sopra esplicitati.

1.2 Premessa generale: sul danno (evento) da perdita di chance di guarigione e sopravvivenza

Nel caso di specie, l'unico evento di danno allegato sin dal principio dagli attori, all'esito della consulenza tecnica depositata nell'ambito del procedimento ex art. 696 bis c.p.c., risulta essere il danno da c.d. perdita di chance di guarigione, o di sopravvivenza, o di maggiore durata della vita residua, essendo chiaro sin dalle risultanze della CTU preventiva che l'operato dei sanitari della Azienda U. (omissis) che ebbero in cura il defunto F. non fu causa dell'evento morte dello stesso (avuta peraltro a distanza di quasi due anni dalle dimissioni del de cuius dalla struttura convenuta), bensì esclusivamente una condotta inadempiente rispetto all'onere di corretta prescrizione di controlli periodici (c.d. follow-up), la quale ha comportato, come si vedrà, una riduzione delle possibilità di sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi iniziale.

Al fine di comprendere il campo di indagine, occorre operare una premessa giuridica in punto di danno da perdita di chance di guarigione, soprattutto alla luce degli ultimi arresti sul punto da parte della Suprema Corte.

Difatti, risulta utile richiamare il recente e condivisibile orientamento della Suprema Corte (Cassazione civile sez. III, 26/06/2020, n.12928) che ha qualificato la perdita di chance come il sacrificio della possibilità di un risultato migliore", precisando che "la chance non va identificata con la probabilità statistica di sopravvivenza, consistendo la specificità di tale profilo di danno nella privazione della possibilità di sopravvivere più a lungo e/o con minori sofferenze".

Prima ancora della suddetta sentenza, i tratti principali del danno da perdita di chance sono stati chiariti nella sentenza della Cass. Civ., sez. III, sentenza 9 marzo 2018, n. 5641, la quale ha evidenziato che: "nel caso in cui la condotta colpevole del medico abbia cagionato non la morte del paziente (che si sarebbe verificata comunque) bensì una significativa riduzione della durata della sua vita ed una peggiore qualità della stessa per tutta la sua minor durata, il sanitario sarà chiamato a rispondere dell'evento di danno costituito dalla minore durata della vita e dalla sua peggiore qualità, senza che tale danno integri una fattispecie di perdita di chance - senza, cioè, che l'equivoco lessicale costituito dal sintagma "possibilità di una vita più lunga e di qualità migliore" incida sulla qualificazione dell'evento, caratterizzato non dalla "possibilità di un risultato migliore", bensì dalla certezza (o rilevante probabilità) di avere vissuto meno a lungo, patendo maggiori sofferenze fisiche e spirituali. Solo nel caso in cui la condotta colpevole del sanitario abbia avuto, come conseguenza, un evento di danno incerto, di talché le conclusioni della CTU risultano espresse in termini di insanabile incertezza rispetto all'eventualità di maggior durata della vita e di minori sofferenze, ritenute soltanto possibili alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie di cura del tempo, tale possibilità - i.e. tale incertezza eventistica (la sola che consenta di discorrere legittimamente di chance perduta) - sarà risarcibile equitativamente, alla luce di tutte le circostanze del caso, come possibilità perduta - se provato il nesso causale (certo, ovvero "più probabile che non"), tra la condotta e l'evento incerto (la possibilità perduta) nella sua necessaria dimensione di apprezzabilità, serietà, consistenza".

La migliore indicazione dei più salienti connotati del danno da perdita di chance in ambito di responsabilità medica si riviene, come noto, nella sentenza della Cassazione Civile sez. III, 11/11/2019, n. 28993, la quale ha specificato che:

-" in tema di lesione del diritto alla salute da responsabilità sanitaria, la perdita di chance a carattere non patrimoniale consiste nella privazione della possibilità di un miglior risultato sperato, incerto ed eventuale (la maggiore durata della vita o la sopportazione di minori sofferenze) conseguente - secondo gli ordinari criteri di derivazione eziologica - alla condotta colposa del sanitario ed integra evento di danno risarcibile (da liquidare in via equitativa) soltanto ove la perduta possibilità sia apprezzabile, seria e consistente. (Nella fattispecie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso la sussistenza di una perdita di chance rilevando che, anche in caso di corretta esecuzione della prestazione sanitaria, la possibilità di sopravvivenza della paziente era talmente labile e teorica da non poter essere determinata neppure in termini probabilistici)";

- "la sussistenza di una privazione di chance di sopravvivenza, quale evento di danno distinto dalla prospettiva dell'anticipazione dell'evento fatale (ossia della riduzione della durata della sua vita), può essere fondatamente esclusa, qualora la possibilità per il paziente di sopravvivere alla situazione ingravescente risulti talmente labile e teorica da non poter essere determinata neppure in termini statistici e scientifici probabilistici e, ancor meno,

equitativamente quantificata, fermo restando che il valore statistico/percentuale - se in concreto accertabile - può costituire al più un criterio orientativo, in considerazione della infungibile specificità del caso concreto, onde distinguere la concreta possibilità dalla mera speranza";

- "sul piano funzionale chance patrimoniale e chance non patrimoniale partecipano della stessa natura. La diversità morfologica tra chance patrimoniale e chance non patrimoniale da responsabilità sanitaria va individuata nella diversità della situazione preesistente: preesistenza negativa (chance non patrimoniale); preesistenza positiva (chance patrimoniale). Tale preesistenza postula, nella chance patrimoniale, una situazione positiva (titoli professionalità, curricula, esperienze pregresse, attitudini specifiche ecc.), in quella non patrimoniale, una situazione di salute (già) patologica (i.e. negativa). Entrambe le forme di chance presuppongono: a) una condotta colpevole dell'agente; b) un evento di danno (la lesione di un diritto); c) un nesso di causalità tra la condotta e l'evento; d) una o più conseguenze dannose risarcibili, patrimoniali e non; e) un nesso di causalità tra l'evento e le conseguenze dannose".

In particolare, nella sentenza in esame, ha osservato la Suprema corte, il giudice a quo, nel rigettare la domanda di danni ha concluso che la possibilità della parte di sopravvivere alla situazione ingravescente, anche se fosse stata curata con assistenza e specialisti diversi e con differenti apparecchiature, tenuto pure conto delle sue condizioni generali, assolutamente scadute ben prima che si verificassero i ritardi terapeutici, e dei rischi del trasferimento presso altra struttura sanitaria con procedura d'urgenza, con concreto pericolo di arresto cardiaco, fosse talmente labile e teorica da non poter essere determinata neppure in termini statistici e scientifici probabilistici e, ancora meno, equitativamente quantificata, e tale accertamento si sottrae, in base ai principi sopra esposti, alle critiche formulate.

Da ultimo, la Corte ha specificato che applicando tali criteri alla responsabilità sanitaria (segnatamente in ambito oncologico), l'illecito da chance perduta si dipana secondo la seguente tradizionale scansione: - condotta colposa (omessa, erronea o ritardata diagnosi); - lesione di un diritto (il diritto alla salute e/o all'autodeterminazione, entrambi costituzionalmente tutelati); - evento di danno (sacrificio della possibilità di un risultato migliore); - conseguenze dannose risarcibili (valutabili in via equitativa).

Di modo che sono stati indicate come verificabili le seguenti ipotesi:

"A) La condotta (commissiva o più spesso omissiva) colpevolmente tenuta dal sanitario ha cagionato la morte del paziente, mentre una diversa condotta (diagnosi corretta e tempestiva) ne avrebbe consentito la guarigione, alla luce dell'accertamento della disposta CTU. In tal caso l'evento (conseguenza del concorso di due cause, la malattia e la condotta colpevole) sarà attribuibile interamente al sanitario, chiamato a rispondere del danno biologico cagionato al paziente e del danno da lesione del rapporto parentale cagionato ai familiari.

B) La condotta colpevole ha cagionato non la morte del paziente (che si sarebbe comunque verificata) bensì una significativa riduzione della durata della sua vita ed una peggiore qualità della stessa per tutta la sua minor durata, in base all'accertamento compiuto dal CTU. In tal caso il sanitario sarà chiamato a rispondere dell'evento di danno costituito dalla perdita anticipata della vita e dalla sua peggior qualità, senza che tale danno integri una fattispecie di perdita di chance - senza, cioè, che l'equivoco lessicale costituito dal sintagma "possibilità di una vita più lunga e di qualità migliore" incida sulla qualificazione dell'evento, caratterizzato non dalla "possibilità di un risultato migliore", bensì dalla certezza (o rilevante probabilità) di aver vissuto meno a lungo, patendo maggiori sofferenze fisiche e spirituali.

C) La condotta colpevole del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata e sull'esito finale, rilevando di converso, in pejus, sulla sola (e diversa) qualità ed organizzazione della vita del paziente (anche sotto l'aspetto del mancato ricorso a cure palliative): l'evento di danno (e il danno risarcibile) sarà in tal caso rappresentato da tale (diversa e peggiore) qualità della vita (intesa altresì nel senso di mancata predisposizione e organizzazione materiale e spirituale del proprio tempo residuo), conseguente alla lesione del diritto di autodeterminazione, purchè allegato e provato (senza che, ancora una volta, sia lecito evocare la fattispecie della chance).

D) La condotta colpevole del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata, sulla qualità della vita medio tempore e sull'esito finale. La mancanza, sul piano eziologico, di conseguenze dannose della pur colpevole condotta medica impedisce qualsiasi risarcimento.

E) La condotta colpevole del sanitario ha avuto, come conseguenza, un evento di danno incerto: le conclusioni della CTU risultano, cioè, espresse in termini di insanabile incertezza rispetto all'eventualità di maggior durata della vita e di minori sofferenze, ritenute soltanto possibili alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie di cura del tempo. Tale possibilità - i.e. tale incertezza eventistica (la sola che consenta di discorrere legittimamente di chance perduta) - sarà risarcibile equitativamente, alla luce di tutte le circostanze del caso, come possibilità perduta - se provato il nesso causale, secondo gli ordinari criteri civilistici tra la condotta e l'evento incerto (la possibilità perduta) - ove risultino comprovate conseguenze pregiudizievoli (ripercussioni sulla sfera non patrimoniale del paziente) che presentino la necessaria dimensione di apprezzabilità, serietà, consistenza".

In altre parole, nonostante la frequente ed erronea sovrapposizione lessicale, laddove sia dedotto quale evento dannoso la perdita anticipata della vita e l'impedimento a vivere il tempo residuo in condizioni migliori e consapevoli e l'accertamento istruttorio conduca a determinare con certezza o con rilevante grado di probabilità che il soggetto abbia effettivamente vissuto meno a lungo a causa della condotta dei sanitari, la domanda di risarcimento del danno è da qualificarsi come danno da perdita della possibilità di sopravvivenza. E' invece invocabile un danno da perdita di chance allorquando l'evento di danno sia costituito dalla possibilità apprezzabile, seria e concreta di consecuzione di un determinato vantaggio rappresentato dalla conservazione di una miglior qualità della vita durante il decorso di una malattia e/o da una maggior durata della vita stessa rispetto a quella effettivamente verificatasi, sebbene non sia accertabile e quantificabile, con certezza o ragionevole grado di probabilità, l'eventuale maggiore durata della vita.

Pertanto, nel caso di omessa informazione di neoplasia e ritardato trattamento terapeutico, ancorché il decesso possa risultare, sulla base delle circostanze del caso concreto, esito inevitabile della patologia, è comunque necessario valutare se sussistesse la possibilità di un precoce follow-up oncologico, e quindi di un diverso percorso diagnostico e terapeutico che consentisse una diversa progressione della malattia ed eventualmente una maggiore sopravvivenza in vita.

Ciò che rileva - ai fini dell'accertamento del nesso di causalità tra condotta ed evento - è in definitiva la perdita, da parte del paziente, della possibilità di vivere più a lungo a causa dell'inadempimento altrui.

Da ultimo, per ciò che rileva nella fattispecie oggetto di causa, si rileva che la Suprema Corte ha recentemente posto l'accento sui casi di omissione del dovuto follow-up post-operatorio e terapeutico, evidenziando che: "Il chirurgo non può limitarsi a effettuare l'intervento di cui sia stato incaricato per l'asportazione di una neoplasia, bensì è tenuto a eseguire un'attenta opera di "follow up" nei confronti del paziente. E ciò per evitare future recidive. Per i giudici il follow up consiste in alcune "regole d'oro" che deve seguire il paziente che abbia ricevuto una diagnosi di tumore, o che ha affrontato l'intervento per cercare di eliminare la malattia. Ancora, sulle informazioni da fornire al paziente, la sentenza ha richiamato il termine "equipe", facendo riferimento ai sanitari tramite cui l'azienda incaricata avrebbe dovuto dare seguito alla propria obbligazione negoziale, senza che possa essere espunto, da quelli, proprio il professionista che ha eseguito l'intervento, in primo luogo per fornire al paziente le necessarie informazioni e le istruzioni successive. Né, poi, l'eventuale corresponsabilità di ulteriori professionisti può escludere, per una ragione prima logica che giuridica, quella del chirurgo sul punto. Il malato, in virtù di un corretto follow up, avrebbe potuto beneficiare di elevate probabilità di individuare le sopravvenute metastasi in uno stato iniziale, in una fase, pertanto, curabile con più intensa efficacia, aumentando in modo significativo le possibilità di sopravvivenza" (Cassazione Civile sez. III, 29/04/2022, n.13509).

Comunque sia, nonostante l'attenzione specifica rivolta ai casi di omesso adeguato follow-up, la Suprema Corte, nella propria motivazione, richiama in ogni caso la pronuncia sopra vista (Cass. Civ., sez. III, sentenza 9 marzo 2018, n. 5641), in base alla quale la perdita di chance per essere degna di risarcimento deve comunque essere connotata dai caratteri di serietà, consistenza ed apprezzabilità, avendo difatti escluso in differenti arresti

la dignità di posta risarcitoria a quei casi di probabilità di guarigione davvero risibili ed astratte, in relazione al caso concreto, ed esplicitando come la chance, per essere seria, deve essere una effettiva possibilità di sopravvivenza, e non una mera speranza.

Difatti, la sentenza Cass. Civ., n. 5641/2018 sembra introdurre un limite alla risarcibilità della perdita di chance, richiamando "apprezzabilità, serietà, consistenza" del danno (ossia della "perdita della possibilità") - con un implicito rinvio alle note sentenze gemelle delle Sezioni Unite del 2008-; anche in ciò si coglie una differenza con l'impostazione tradizionale (per es. Cass. Civ., n. 23846/2008) secondo cui il "grado" della chance (la percentuale probabilistica che la integra) non rileva ai fini dell'an, ma incide solo sul quantum (nel senso che un risarcimento dovrebbe comunque essere riconosciuto, anche se la "possibilità perduta" era minimale). Sul punto, si rileva che le pronunce suddette della Suprema Corte non hanno mai specificato la soglia minima di apprezzabilità della chance perduta, rimettendo quindi tale ponderazione alla valutazione equitativa del giudice di merito.

Sul punto, come noto, alcune sentenze di merito hanno richiesto una percentuale di possibilità per lo meno superiore al 50%, mentre altre, facendo riferimento alle specificità del caso concreto, hanno accolto domande risarcitorie formulate anche in riferimento a percentuali inferiori (20-30%).

Le suddette specificazioni giuridiche e giurisprudenziali rilevano, nel caso di specie, soprattutto al fine di comprendere la reale portata dell'evento di danno emerso nella presente fattispecie, e la circostanza (di notevole utilità per la comprensione della valutazione da operarsi nel prosieguo) per la quale nella presente vertenza non si discorre di responsabilità dei sanitari della struttura convenuta nella causazione dell'evento morte del F., bensì si discute esclusivamente delle omissioni e della loro responsabilità nella causazione di un danno inteso come riduzione delle possibilità di guarigione e di sopravvivenza del defunto, a causa dei controlli omessi e non prescritti.

Nel caso di specie, difatti, espressosi il CTU nei termini di incertezza della possibilità di guarigione e sopravvivenza, ben si comprende come si tratti propriamente della casistica di cui al punto E) enunciato dalla sentenza della Cassazione Civile sez. III, 11/11/2019, n. 28993, sopra esaminato.

2. Sulla relazione peritale di cui all'Accertamento Tecnico Preventivo: danno da perdita di chance, danno biologico da laparocele iatrogeno e danno terminale/danno catastrofale

Sul punto, risulta utile fare riferimento a quanto specificamente accertato dal Consulente Tecnico incaricato nell'ambito del procedimento ex art. 696 bis c.p.c., e chiamato a fornire alcuni chiarimenti anche in questo giudizio, le cui conclusioni vengono in questa sede recepite, salvo una dovuta specificazione logica e metodologica.

Occorre sottolineare come la giurisprudenza di legittimità abbia messo in evidenza che il giudice del merito "non è tenuto a fornire un'argomentata e dettagliata motivazione" qualora aderisca alle elaborazioni del consulente (Cass. Lav. 7701/2018); o ancora che: "il giudice di merito che riconosce convincenti le conclusioni del consulente tecnico non è tenuto ad esporre in modo specifico le ragioni che lo inducono a fare propri gli argomenti dell'ausiliare se dalla indicazione della consulenza tecnica possa desumersi che le contrarie deduzioni delle parti siano state rigettate, dato che in tal caso l'obbligo della motivazione è assolto con l'indicazione della fonte dell'apprezzamento espresso" (Cass. 14638/2004).

Le argomentazioni sopra citate della giurisprudenza di merito e di legittimità sono utili per comprendere come, soprattutto in ambiti dotati di alto tecnicismo, come nel caso di specie, il Giudice di merito possa ben limitarsi a recepire le conclusioni del suo ausiliario.

La CTU depositata in atti risulta puntuale, provvista di adeguata indicazione dei criteri analitici seguiti nel corso della valutazione. Inoltre, l'ausiliario del Giudice ha adeguatamente preso posizione sulle osservazioni avanzate dalle parti direttamente e/o dai loro tecnici, garantendo in questo modo il contraddittorio e la critica costruttiva e dialettica sui punti esaminati nel corso della relazione peritale.

Date queste premesse, il Giudicante ritiene di aderire alle conclusioni espresse nella relazione peritale d'ufficio, nei limiti di quanto si va ad esporre, nel senso che, pur aderendo alla pressoché totalità delle valutazioni del CTU, occorre apportare un limitato correttivo alle sue valutazioni finali.

Correttamente, il Giudice precedente assegnatario del fascicolo ha ritenuto di non dare luogo alla richiesta di CTU avanzata dalla struttura convenuta, avendo il CTU preso posizione in via esaustiva su tutti i campi di indagine delegatigli, oltre che fornito i chiarimenti richiesti.

Sulla base della documentazione versata in atti, della c.t.u. medico-legale esperita in ATP e delle deduzioni delle parti i fatti di causa sono stati così ricostruiti:

- "nella sua essenza la cronistoria del paziente presso l'ospedale di (omissis) fa rilevare: diagnosi di adenocarcinoma del retto nel giugno 2010 dopo resezione colica e rettale (con ileostomia per protezione di anastomosi colo-rettale insufficiente) per adenomi multipli. Nel settembre 2010 intervento di chiusura della ileostomia e reintervento urgente a seguire per peritonite, con riconfezionamento della ileostomia, residuando infezione di una delle laparotomie eseguite e laparocele mediano. Chiusura definitiva della ileostomia nel febbraio 2011. Si eseguirono nel tempo due colonscopie e varie visite di controllo (negative per recidive/riprese endointestinali) e nessuna indagine TAC di stadiazione e di follow-up fino al novembre 2011";

- "nel novembre 2011 una TAC (confermata da una PET) evidenziò una vasta metastasi al fegato. Di poi seguito presso l'azienda ospedaliera di Pa. (…); chemioterapia dal marzo 2012, allorché una TAC rileva ripetizioni multiple al fegato e alle ossa. Radioterapia palliativa ossea nell'agosto 2012. Chemioterapia ancora in seguito. Decedette per malattia neoplastica terminale il 12.3.2013";

- "l'indicazione a procedere con terapia chirurgica per quel quadro di polipi colici multipli, solo in parte asportabili endoscopicamente, di cui uno in stadio di adenocarcinoma intramucoso ed un altro sospetto tale nel retto a 10 cm dal margine anale, risultò corretta; l'estensione della exeresi intestinale a tal scopo eseguita il 25.5.2010 fu pertanto giustificata".

Tuttavia, nonostante il CTU non abbia rilevato come sussistente un nesso di causalità tra la condotta dei sanitari che ebbero in cura il paziente presso l'Azienda convenuta, e il decesso dello stesso, non rinvenendosi in tal modo (è bene chiarirlo) una condotta negligente e colposa causa dell'evento morte, il CTU ha individuato in ogni caso una condotta carente da parte dei suddetti sanitari, come causa della produzione di un diverso evento di danno, nei termini sopra visti, ossia inteso come riduzione della chance di guarigione e di sopravvivenza.

Difatti, ha evidenziato il CTU che:

"l'esame istologico condotto sul tratto di colon-retto asportato e refertato il 18.6.2010 dimostrò la presenza di un adenocarcinoma del retto e di vari adenomi nel rimanente specimen colico. In base alla classificazione TNM vigente al tempo1 e come formulato dall'oncologo medico e da quello radioterapista nelle loro consulenze rispettivamente del 29.6.2010 e del 27.7.2010, il tumore venne stadiato come T2 N0 M0; trattandosi di parametri basati essenzialmente sui riscontri anatomopatologici si trattava di un pTN, non essendosi ancora indagato più compiutamente le eventuali manifestazioni extralocoregionali, ovvero il parametro M. Nel mentre era ammissibile non aver attuato uno screening strumentale extracolico preoperatorio, in quanto l'unico adenomadegenerato esibiva un focolaio carcinomatoso intramucoso o in situ e dunque dall'improbabile metastatizzazione, diversa era la situazione una volta accertato postoperatoriamente l'adenocarcinoma rettale che per estensione macro e microscopica venne appunto correttamente classificato come pT2N0. Buona pratica medica, comune esperienza e trattatistica sono unanimi nel prescrivere una TAC toraco-addominale una volta accertata la presenza di una neoplasia colo-rettale quale che sia la fase dell'iter di trattamento: per concisione ci limitiamo alle linee guida2 dell’ NCCN (National Comprehensive Cancer Network), le più seguite al mondo, nella loro edizione del 2009 pertinente ai fatti. Al tempo la PET non veniva raccomandata quale esame routinario di sorveglianza, ed invece riservata in seconda istanza su indicazione. Come noto, lo scopo dello screening è quello di evidenziare eventuali diffusioni extrarettali di malattia TAC-rilevabili (in caso di diagnosi post-chirurgica, come nello specifico, integrando così i dati intuitivamente parziali forniti da clinica, esplorazione intraoperatoria e esame patologico) in modo da definire al meglio lo

stadio completo di malattia, individuare le eventuali appropriate strategie terapeutiche integrate del caso e in definitiva assicurare la migliore prognosi possibile. Al contrario una sottostadiazione può, in caso di localizzazioni metastatiche misconosciute, compromettere quello spazio di intervento e conseguente prognosi che i trattamenti opportuni possono portare pur in fase avanzata (questo ultimo aspetto verrà analizzato più oltre). Nella medesima ottica dopo una prima stadiazione generale completa e il primo trattamento (in stretta cadenza temporale indipendentemente dalla loro eventuale successione) veniva e viene universalmente prescritto 2 - 4 un follow-up postoperatorio mediante controllo con TAC toraco-addominale-pelvico ogni 6-12 mesi (6 specificatamente nel caso di invasione linfatica e ove non eseguita radioterapia postoperatoria, come nel nostro) e con endoscopia colica, con l'intento di scoprire recidive a distanza, soprattutto epatiche e polmonari, e/o locali suscettibili di trattamenti efficaci. Ad esempio una metastasi epatica da carcinoma colico resecata radicalmente arriva a consentire sopravvivenze fino al 33% a 5 anni".

Il CTU ha quindi concluso per un carente adeguato follow-up e controlli post-operatori da parte dei sanitari dell'Azienda convenuta, considerando tale condotta (di tipo negligente) in diretto nesso causale con la riduzione della chance di sopravvivenza del paziente, evidenziando che: "la documentazione sanitaria inerente al caso di specie costringe a concludere che il Sig. F. non fu studiato dopo l'intervento con quella accuratezza che la accertata malattia neoplastica richiedeva. Il dr. P., infatti ha concluso che la RM di cui i CT di parte ricorrente hanno preso contezza nel corso delle operazioni peritali: "...va considerato esame RM della parete addominale e non dell'addome superiore. L'esame eseguito non consente una adeguata valutazione del fegato; in particolare non è possibile valutare in maniera adeguata il 7º segmento epatico, che risulterà successivamente sede di metastasi. Si riconosce una piccola lesione focale presumibilmente di tipo cistico nel 4º segmento epatico". Difatti furono sì eseguite nel tempo due colonscopie di controllo (il 4.8.10 e poi il 24.11.11, entrambe escludenti ripresa/recidive anastomotiche o endointestinali di neoplasia o polipi), ma né durante la degenza in Chirurgia dal 24.5 all’ 1.6.10, né nella lettera di dimissione dalla Chirurgia l'1.6.10, né nella comunicazione del 21.6.10 indirizzata al paziente circa la disponibilità del referto istologico, né con la visita oncologica del 29.6.10, né con la consulenza radioterapica del 27.7.10 (che pure consigliava uno stretto follow-up, ma senza precisare come e con che tempi), né durante la degenza in Chirurgia dal 30.8 al 28.9.10, né nella lettera di dimissione del 28.9.10 dopo il secondo e il terzo intervento, né nel corso delle 5 visite di controllo presso l'ambulatorio chirurgico avvenute tra giugno e fine ottobre 2010, né nella relazione della visita di controllo a cura del direttore della chirurgia in data 16.11.10, né durante la degenza in Chirurgia dall’ 8.2 al 16.2.11, né nella lettera di dimissione del 16.2.11, mai furono prescritte TAC di stadiazione generale e di follow-up. La prima TAC venne eseguita il 18.11.2011, ossia 17 mesi dopo la refertazione istologica diagnosticante l'adenocarcinoma rettale asportato; l'indagine evidenziò una neoplasia con caratteri di secondarietà di 7 cm e una PET del 28.11.11 confermò la diagnosi. L'esame istologico condotto sul lobo epatico asportato nel gennaio 2012 confermò trattarsi di metastasi di carcinoma colico di 9 cm e rilevò anche due altre ripetizioni più piccole associate a quella maggiore. Una corretta stadiazione ed un appropriato follow-up con TAC, iniziati al tempo della diagnosi di carcinoma rettale, avrebbero ragionevolmente seguito la cadenza giugno-luglio 10 (la prima), dicembre 2010 e gennaio 2011 la seconda, giugno-luglio 2011 la successiva e via a seguire. Considerata tale scansione temporale delle TAC, (la stessa metodica che svelò la malattia metastatica epatica nel novembre 2011), e tenuto conto della entità della malattia secondaria che si era andata instaurandosi al momento della sua prima rilevazione, risulta giustificato concludere che quell'appropriato programma di controlli d'immagine avrebbe rilevato con anticipo - certamente prima del novembre 2011- la diffusione di malattia".

Tale carente follow-up ha comportato per il CTU le seguenti ipotesi di danno: "anche nello stadio avanzato/metastatico di carcinoma rettale l'esito dei trattamenti postoperatori, seppur limitato a ciò che tale situazione oncologica consente, viene direttamente influenzato dal fattore tempo: maggiore il ritardo d'inizio di quelli e minore il controllo/rallentamento della progressione di malattia 6 - 8. Nel caso specifico è ragionevole stimare che una più tempestiva rilevazione del coinvolgimento epatico, ove TAC di stadiazione e poi di sorveglianza fossero state condotte con le scansioni temporali sopraesposte, avrebbe diagnosticato quest'ultimo a sua volta prima e in fase iniziale. Ciò avrebbe di conseguenza consentito di utilizzare precocemente in sequenza o in combinazione trattamenti ablativi non chirurgici o con RTsterotassi mirati, exeresi operatoria di mole inferiore (con minori trauma e immunodepressione) rispetto a quella richiesta nel gennaio 2012, e chemioterapia sistemica o regionale con intenti sia di controllo antiblastico o di rallentamento

della progressione a livello generale, sia di conversione a malattia completamente resecabile quella a livello epatico a seconda delle circostanze".

Nello specifico, ed in via definitiva, il CTU ha concluso che: "di fatto per i pazienti con tumore del retto diagnosticati in stadio IV-M1 la sopravvivenza globale (ossia includendo la mortalità sia per quel tumore sia per ogni altra causa) a 5 anni è del 10%-14% - e 10% a 10 anni se considerata solo la sopravvivenza cancer-specific -, ma la sopravvivenza aumenta fino al 25-40% se la malattia metastatica (epatica o polmonare) è suscettibile di chirurgia con intenti radicali come nel caso in esame 5, 9 - 13. In conclusione, l'aver omesso stadiazione e follow-up appropriati ha privato questo specifico paziente della possibilità pari ad un realistico 33% (la media tra il 25 ed il 40% di cui parla la letteratura e la trattatistica) di essere vivo cinque anni dopo la diagnosi di neoplasia rettale (perdita di chance)".

Nel caso di specie, quindi, risulta provato il nesso di causalità (nei termini del più probabile che non) tra l'inadempimento dei sanitari rispetto al dovere di porre in essere un corretto follow-up, e la produzione del danno rappresentato da una perdita di chance di sopravvivenza e guarigione.

Tuttavia, risulta che il CTU abbia compiuto un errore logico, dal momento che, considerato che il paziente era già provvisto (nel proprio "bagaglio" di beni della vita e per quella specifica patologia da cui era affetto), di una chance di sopravvivenza del 10-14%, il fatto che la condotta dei sanitari abbia comportato una riduzione in capo allo stesso di una chance di guarigione del 33%, determina necessariamente che si debba procedere ad operare una sottrazione tra la chance la cui perdita è stata determinata dalla condotta dei sanitari (33%), e la chance di cui il paziente era già provvisto, e che quindi non è stata eliminata o ridotta dall'operato dei sanitari, ossia una media tra il 10 e il 14%, nei termini di un 12%.

Tale valutazione, evidenziata dalla parte convenuta, risulta al Giudicante la più logica e la più congrua, dal momento che non è consentito addossare all'operato colposo dei sanitari una riduzione della chance di guarigione che tuttavia non è agli stessi imputabile, ossia una riduzione della percentuale di sopravvivenza (il 12%) di cui sono provvisti i pazienti con la patologia da cui era affetto il F., e che non è stata conseguenza del mancato adeguato follow-up post-operatorio.

Ritiene quindi il giudicante di condividere le chiare valutazioni del CTU, come le precisazioni sopra viste.

Sulla scorta delle risultanze della relazione peritale ed in base ai rilievi esposti, risulta raggiunta la prova degli elementi costituitivi dell'illecito contrattuale ed extra contrattuale ascritto ai convenuti.

Per quanto riguarda il nesso causale tra la condotta e l'evento (evento perdita di chance), si ritiene che, nonostante il CTU non si sia espressamente soffermato su tale aspetto, le sue conclusioni come sopra illustrate consentano di ritenere raggiunta la prova del nesso causale (secondo il criterio del più probabile che non) tra l'omessa effettuazione dei dovuti controlli post-operatori, e la perdita da parte del F. della suddetta percentuale (21%) di chance di guarigione.

Difatti, il CTU ha più volte ribadito che un corretto follow-up post-operatorio avrebbe attribuito al paziente la facoltà di porre in essere diverse scelte terapeutiche, atte a ridurre la velocità di sviluppo della patologia, e che la mancata esecuzione di un adeguato trattamento post-operatorio ha comportato l'aggravamento del rischio di morte.

Trattasi, in ogni caso, come visto, di un evento dannoso della perdita della possibilità di raggiungere il risultato sperato della guarigione, e non della perdita vera e propria del risultato della guarigione.

Tale dato (che sarà utile anche in termini di concreta liquidazione equitativa del danno iure proprio) si desume anche dai seguenti fattori: la patologia da cui era affetto il F. comportava un significativo rischio di morte, anche in caso di trattamento post-operatorio, in quanto anche la somministrazione delle terapie previste dalle linee guida, pur incrementando le possibilità di sopravvivenza, non avrebbe comunque eliso la possibilità dell'evento infausto; non si evincono dalla consulenza tecnica d'ufficio, né tanto meno dalla consulenza di parte, elementi concreti per affermare che, in caso di corretta diagnosi e di conseguente anticipazione del trattamento, il paziente sarebbe certamente, o con ragionevole probabilità, rientrato nell'ambito della

percentuale di quei pazienti che sarebbero sopravvissuti a 10 anni, anche considerando che la percentuale di sopravvivenza a cinque anni era già alquanto ridotta (10-14%) nei pazienti con la patologia del F.; da ultimo, la circostanza che si stia discorrendo solo ed esclusivamente di danno da perdita di chance si desume anche dal fatto che l'incertezza nel conseguimento del risultato non può essere risolta né sulla base dei dati statistici evincibili dalle linee guida e dalla letteratura scientifica richiamate nella consulenza, né sulla base dei dati clinici e temporali relativi all'iter clinico del paziente.

In definitiva, le citate risultanze istruttorie non consentono di superare l'incertezza sul verificarsi del risultato, costituito dalla sopravvivenza a cinque anni e quindi non della probabile guarigione ma della sostanziale maggiore speranza di vita, considerate le condizioni del danneggiato, e segnatamente la tipologia e aggressività della patologia da cui era affetto il F., nonché il grado di efficacia delle cure omesse, che, in base agli accertamenti peritali, non avrebbero eliminato il rischio di anticipato decesso, data la permanenza di una area significativa di possibilità di esito infausto.

Al contempo, i dati fin qui esposti evidenziano la sussistenza di un chiaro rapporto causale tra la condotta colposa dei convenuti e la perdita in capo al paziente della possibilità di conseguimento di tale risultato, possibilità da ritenersi certamente dotata dei requisiti della consistenza, serietà ed apprezzabilità, alla luce delle stimate percentuali di attesa di un risultato positivo.

La suddetta percentuale del 21%, seppure si è consci del fatto che possa essere valutata anche nei termini di non serietà e non consistenza (si vedano i principi esposti nel paragrafo 1.2), e rammentando quella parte di giurisprudenza di merito che ascrive dignità risarcitoria soltanto ad una chance caratterizzata da percentuale superiore (almeno superiore al 40-50%), tuttavia, nel caso di specie, per l'età del paziente (61 anni), e per gli ulteriori fattori esposti (possibilità di sopravvivenza per un periodo di tempo aggiuntivo e possibilità di battersi ancora per alcuni anni per il contrasto della morte), si preferisce inquadrarla in una categoria di chance degna di considerazione, nei termini di danno-evento dotato del crisma di una sì minima e ridotta, ma ugualmente apprezzabile consistenza e serietà. Come visto, difatti, la giurisprudenza di legittimità rimette alla valutazione del giudice di merito la valutazione circa il carattere di serietà e apprezzabilità della chance di maggiore possibilità sopravvivenza perduta.

Nei successivi paragrafi verranno esposte le valutazioni in punto di danni-conseguenza, relativi al predetto accertamento, con le specificazioni in punto di quantum che ne seguiranno.

Tuttavia, risulta utile già in questo paragrafo chiarire come non sia meritevole di accoglimento la domanda avanzata dagli attori iure hereditatis in punto di risarcimento del danno biologico asseritamente subito dal F. nei mesi trascorsi dall'esecuzione dell'intervento chirurgico al decesso (c.d. danno da laparocele iatrogeno).

Per evitare sovrapposizioni, si chiarisce come si stia discorrendo in questo caso non del danno da perdita di chance, ma del vero e proprio danno biologico indicato dal CTU a pag. 56 della propria relazione di cui al procedimento ex art. 696 bis c.p.c., ossia il danno biologico da laparocele iatrogeno, in relazione al quale il CTU indica che: "Si concorda con il collega relativamente alla iatrogenicità del laparocele mediano per i motivi esposti nella parte analitica della presente relazione. Tale fatto però non ha determinato uno stato d malattia di 30 mesi come richiesto poiché la malattia è una disfunzionalità evolutiva ma un danno biologico permanente del 5% che va computato per 30 mesi (dalla stabilizzazione della menomazione al decesso)".

Difatti, richiamando tutti i principi in ambito di onere della prova e nesso di causalità esposti nel paragrafo n. 1.1, si rammenta che l'onere della prova del nesso di causalità tra la condotta dei sanitari e il danno biologico subito dal paziente grava in ogni caso in capo al danneggiato.

In relazione a tale allegato danno biologico del 5%, non risulta possibile ascrivere la produzione del laparocele ad un'erronea tecnica chirurgica dei sanitari della parte convenuta.

Nel caso di specie, in sede di relazione di chiarimenti depositata nell'ambito del presente procedimento dal CTU in data 8.11.2018, lo stesso ha chiarito che: "in base alla trattatistica citata al proposito nella nostra relazione e a comune esperienza, la causa primaria del laparocele mediano osservato nella fattispecie va attribuita con maggiore probabilità alla documentata infezione prolungata della ferita chirurgica mediana, a

sua volta frequente complicanza (quindi non ascrivibile a errore medico) in caso di interventi per peritonite settica come nello specifico, peritonite a sua volta evento avverso che può verificarsi (e nello specifico non per errore medico) dopo la sutura della appropriata ileostomia protettiva temporanea. Dal punto di vista medico legale se pure il movente principale del laparocele riconosce una eziopatogenesi collegata alla peritonite, a sua volta riconosciuta nel caso specifico non prevenibile, tuttavia le reiterate ed evitabili multiple incisioni hanno concorso alla debolezza della parete addominale".

Sulla base delle suddette conclusioni del CTU, non risulta quindi possibile ascrivere all'operato dei sanitari la produzione secondo il criterio causale del più probabile che non, del laparocele iatrogeno, dovendo lo stesso qualificarsi come complicanza post-chirurgica di possibile (e tuttavia non prevenibile, dunque nemmeno imputabile) verificazione in danno al paziente. Difatti, la stessa qualificazione da parte del CTU del suddetto evento dannoso secondario come complicanza in senso tecnico, determina la sua non riferibilità eziologica ad una allegata condotta sanitaria erronea.

Da ultimo, risulta utile chiarire già in questa sede la non fondatezza della domanda proposta dagli attori iure hereditatis nei termini del risarcimento del danno definito in atto di citazione come "danno tanatologico" ma meglio interpretabile come danno biologico e morale terminale, e danno catastrofale.

Difatti, chiarito che il CTU ha ritenuto provata una condotta colposa dei sanitari esclusivamente nei termini di una riduzione della perdita di chance di sopravvivenza, e chiarito che in nessun luogo sulla base delle risultanze peritali l'evento morte possa essere ascritto ad una condotta colposa dei sanitari, ben si comprende come l'allegato danno terminale subito dal F., nel periodo di cosciente attesa dell'evento morte, non possa essere logicamente e causalmente ascritto all'operato dei sanitari.

Difatti, come noto, la giurisprudenza ha chiarito che: deve escludersi la risarcibilità iure hereditatis di un danno da perdita della vita (Cass., sez. un. nr . 15350 del 2015; v., ex multis, in motiv. Cass. nr. 8580 del 2019), in ragione dell'assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio. Piuttosto, deve ritenersi configurabile e trasmissibile iure hereditatis il danno non patrimoniale nelle due componenti di danno biologico "terminale", cioè di danno biologico da invalidità temporanea assoluta, configurabile in capo alla vittima nell'ipotesi in cui la morte sopravvenga dopo apprezzabile lasso di tempo dall'evento lesivo (Cass. nr. 26727 del 2018; nr. 21060 del 2016; nr. 23183 del 2014; nr. 22228 del 2014; nr. 15491 del 2014) e di danno morale "terminale o catastrofale o catastrofico", ossia del danno consistente nella sofferenza patita dalla vittima che lucidamente assiste allo spegnersi della propria vita, quando vi sia la prova della sussistenza di un suo stato di coscienza nell'intervallo tra l'evento lesivo e la morte, con conseguente acquisizione di una pretesa risarcitoria trasmissibile agli eredi (Cass. nr. 13537 del 2014; nr. 7126 del 2013; n. 2564 del 2012)" (Cass. 6503/2022).

Ben si comprende quindi, come, nella configurazione del suddetto danno morale e biologico terminale e catastrofale l'evento (il c.d. danno evento) di cui si discorre e a cui possa essere logicamente ed eziologicamente collegato il periodo di cosciente attesa della morte, sia propriamente l'evento morte, e non l'evento "perdita di chance di sopravvivenza".

Difatti, è noto che ai fini del riconoscimento di un danno c.d. terminale occorra il necessario presupposto della correlazione causale diretta tra la condotta resa dai sanitari e il decesso del paziente, aspetto che, nel caso di specie, radicalmente manca, avendo la c.t.u. esperita nel pregresso procedimento ai sensi dell'art. 696 bis c.p.c. affermato come la condotta dei sanitari abbia complessivamente inciso sulle sole possibilità di sopravvivenza del sig. F. (in che termini percentuali, lo si vedrà infra), senza tuttavia aver avuto alcuna attitudine eziologica rispetto alla sua morte.

La palese assenza di eziologia ordinaria tra la condotta sanitaria e l'exitus del paziente nel caso specifico rende dunque già di per sé la domanda avversaria del tutto infondata.

Peraltro, come visto, le possibilità di sopravvivenza del F. erano sostanzialmente davvero ridotte, e la perdita delle stesse di tipo assai contenuto (21%), di modo che le possibilità di sopravvivenza di tale limitata ampiezza, mal si conciliano con il richiesto danno, anche e soprattutto per le ragioni logiche come sopra illustrate.

Si rigettano quindi le domande avanzate nei termini di danni iure hereditatis biologico (laparocele iatrogeno), biologico e morale terminale, oltre che catastrofale.

3. Sul danno iure proprio da perdita di chance di maggiore godimento del rapporto parentale

Gli attori (moglie, due figli, due sorelle di due nipoti del F.) hanno chiesto il risarcimento del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, da interpretarsi correttamente in questa sede come danno da perdita di chance di godere dei futuri anni di sopravvivenza del proprio familiare che la corretta diagnosi e la sottoposizione a trattamento chirurgico avrebbe potuto garantire.

Partendo dal primo profilo, in base a quanto fin qui esposto viene in primo luogo in rilievo un danno da perdita di chance di godere del rapporto parentale, data la rilevata incertezza sulla effettiva guarigione e sopravvivenza del F. in caso di corretta diagnosi e di diversa scelta terapeutica.

Anche in tal caso si tratta di danno la cui liquidazione va effettuata in via equitativa e la cui sussistenza richiede l'accertamento degli stessi presupposti richiesti per il riconoscimento del danno da perdita o lesione del rapporto parentale.

Come rilevato dalla giurisprudenza di legittimità, il pregiudizio risarcibile conseguente alla perdita del rapporto parentale che spetta iure proprio ai prossimi congiunti si ricollega alla lesione della relazione che legava i familiari al defunto e richiede la prova dell'effettività e della consistenza di tale relazione, dovendo il giudice verificare la sussistenza della interiore sofferenza morale soggettiva e di quella riflessa sul piano dinamico-relazionale e apprezzare la gravità ed effettiva entità del danno in considerazione dei concreti rapporti col congiunto, anche ricorrendo ad elementi presuntivi quali la maggiore o minore prossimità del legame parentale, la qualità dei legami affettivi, la sopravvivenza di altri congiunti, la convivenza o meno col danneggiato, l'età delle parti ed ogni altra circostanza del caso (cfr. Cass. sez. 3, 11/11/2003, n. 16946; Cass. sez. 3, 06/09/2012 n. 14931; Cass. Civ., sez. 3, ord. 25 giugno 2021 n. 18284; Cass. Civ. sez. 3, 11 novembre 2019 n. 28989).

Anche recentemente la Cassazione al riguardo ha ribadito l'applicabilità di un criterio presuntivo, sempre sulla base di un onere di chiara allegazione da parte dei ricorrenti. Si legge, infatti, che: "è consolidato nella giurisprudenza di legittimità il principio in ragione del quale il danno non patrimoniale da uccisione del congiunto, quale tipico danno - conseguenza non coincide con la lesione dell'interesse (ovvero non è in re ipsa) e come tale deve essere allegato e provato da chi chiede il relativo risarcimento; tuttavia trattandosi di pregiudizio che si proietta nel futuro è consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni sulla base degli elementi obiettivi che è onere del danneggiato fornire" (Cass. ord. 907/2018).

Ancora più eloquente, giurisprudenza granitica nel corso degli anni ha affermato che la prova del danno non patrimoniale può essere fornita tramite presunzioni; costituendo un mezzo di prova di rango non inferiore agli altri, in quanto di grado non subordinato nella gerarchia dei mezzi di prova e dunque non "più debole" della prova diretta o rappresentativa, ben possono le presunzioni assurgere anche ad unica fonte di convincimento del giudice (si veda, ad es. Cass. 7844/2011).

In particolare, in punto di liquidazione della suddetta tipologia di danno, la giurisprudenza di legittimità più recente ha chiarito che "al fine di garantire non solo un'adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul sistema a punti, che preveda, oltre l'adozione del criterio a punto, l'estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l'elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, da indicare come indefettibili, l'età della vittima, l'età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l'indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull'importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l'eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella" (Cass. 10579 del 21/04/2021), manifestando in tal modo una netta preferenza per l'applicazione in tale ambito del sistema tabellare a punti proprio delle Tabelle di Roma.

Nel caso in esame, dall'istruttoria compiuta, dalle tempestive allegazioni degli attori e dalle risultanze dell'escussione delle due testimoni di parte attrice, è emerso lo stretto legame avuto dal F. con la moglie

(convivente), avente quasi la stessa età del marito; con il figlio M., che abitava nella stessa via del padre (a pochi numeri civici di differenza); con la figlia T., che come confermato dalle testimoni si era presa cura da vicino del padre durante il periodo di malattia, e anch'ella residente nella stessa via dei genitori, a pochi numeri civici di distanza.

Il medesimo stretto rapporto è stato confermato in riferimento alle due nipoti del F., figlie della di lui figlia T., D. e A.. Tale stretto rapporto risulta desumibile non solo dal rilevante dolore subito delle ragazzine dopo la morte del nonno, e dalla allegazione (confermata dalle testimoni), che il nonno era solito accompagnare a scuola le nipotine e coadiuvarle nello svolgimento dei compiti scolastici, ma anche e soprattutto da una valutazione di tipo presuntivo per cui, vista l'età delle nipoti all'epoca del decesso del F., D. di 12 anni e A. di 10 anni, la perdita del nonno all'alba dell'età adolescenziale, o meglio, la perdita della possibilità di godere dell'apporto e della guida del nonno ancora per alcuni anni in quell'età, abbia costituito per le stesse una perdita di non ridotta apprezzabilità.

Da ultimo, per contro, alcuna puntuale allegazione è stata fornita dagli attori circa il rapporto sussistente tra il F. e le sorelle dello stesso, odierne attrici, F.E. e F.E., né in termini di concreta e ricorrente frequentazione, né in termini di intensità del loro rapporto pregresso, essendo soltanto stato specificato che la sorella E. viveva in un'altra città, mentre la sorella E. viveva vicino al defunto. In assenza di ulteriori specifiche allegazioni circa l'intensità del rapporto (o la stessa sussistenza di un attuale rapporto) con il fratello, si liquida in via equitativa in favore delle stesse una somma pari a 2.000,00 Euro ciascuna, e ciò solo alla luce dell'età delle stesse, vicina a quella del fratello, e della presumibile sussistenza, in assenza di elementi contrari, di un ordinario rapporto tra fratelli, ognuno con una propria distinta realtà familiare, senza poter tuttavia considerare, nel caso di specie, come sussistente una chance di maggiori possibilità di godimento del rapporto con il fratello.

Per quanto riguarda, invece la moglie, i due figli e le due nipoti, occorre quindi dapprima fare riferimento al sistema a punti delle Tabelle di Roma, e poi, vista la peculiare natura del danno di cui si discorre, riconoscere loro la percentuale del 21% sul totale della somma risarcitoria cui gli stessi avrebbero diritto, rammentando l'età di 61 anni del F. al momento del suo decesso.

La moglie T.A.M., di 60 anni al momento del decesso del marito, avrà quindi diritto al 21% della somma totale (313.814,40), ossia 65.901,00 Euro.

La figlia T., di anni 40, avrà diritto al 21% della somma totale (235.360,80), ossia 49.425,76 Euro.

Il figlio M., di anni 42, avrà diritto al 21% della somma totale (225.554,10), ossia 47.366,36.

La nipote D., di anni 12, avrà diritto al 21% della somma totale (127.487,10), ossia 26.772,29.

La nipote A., di anni 10, avrà diritto al 21% della somma totale (127.487,10), ossia 26.772,29.

La sorella E. e la sorella E., per le ragioni viste, avranno diritto ad 2.000,00 ciascuna.

4. Sul danno da carente consenso informato

Gli attori hanno domandato iure hereditatis anche il danno derivante dalla mancata informativa nei confronti del F. circa i controlli post-operatori e l'adeguato follow-up da porre in essere, che si è tradotto una lesione verso lo stesso del diritto all'autodeterminazione e a porre in essere diverse scelte terapeutiche.

Qualora il Medico venga meno agli obblighi di informazione per il consenso informato, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, possono configurarsi due tipologie di danno per il paziente: "a) un danno alla salute, quando sia ragionevole ritenere che il paziente, sul quale grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi all'intervento; b) un danno da lesione del diritto all'autodeterminazione, predicabile se, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subìto un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale, in tale ultimo caso di apprezzabile gravità, diverso dalla lesione del diritto alla salute" (da ultimo, Cass. III, 11/11/2019, n. 28985).

La pronuncia della Cassazione appena citata ha evidenziato che, anche se la condotta illecita per omessa informazione è autonoma rispetto a quella inerente il trattamento terapeutico, è possibile riconoscere "alla omissione informativa una astratta capacità plurioffensiva, in quanto potenzialmente idonea a ledere distinti interessi sostanziali, rispettivamente, il diritto alla autodeterminazione ed il diritto alla salute - entrambi, quindi, suscettibili di reintegrazione risarcitoria, laddove sia fornita la prova che dalla lesione di ciascuno di tali diritti siano derivate specifiche conseguenze dannose" (Cass. 28985/2019).

Ripercorrendo e confermando un consolidato orientamento, la Suprema Corte ha poi provveduto a tratteggiare i possibili scenari di violazione del consenso informato ed i correlati aspetti di danno, evidenziando che:

"Dall'inadempimento dell'obbligo informativo gravante sul medico possono derivare le seguenti situazioni: A) omessa/insufficiente informazione in relazione a un intervento che ha cagionato un danno alla salute per condotta colposa del medico: se il paziente avrebbe comunque scelto di sottoporsi all'intervento, nelle medesime condizioni, "hic et nunc", sarà risarcibile il solo danno alla salute, nella sua duplice componente, morale e relazionale; B) omessa/insufficiente informazione in relazione a un intervento che ha cagionato un danno alla salute per condotta colposa del medico: se il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi all'intervento, sarà risarcibile anche il danno da lesione del diritto all'autodeterminazione; C) omessa informazione in relazione a un intervento che ha cagionato un danno alla salute (inteso anche nel senso di un aggravamento delle condizioni preesistenti) per condotta non colposa del medico: se il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi all'intervento, saranno risarcibili il danno da lesione del diritto all'autodeterminazione (sul piano puramente equitativo) e il danno alla salute, da valutarsi in relazione all'eventuale situazione "differenziale" tra il maggior dannobiologico conseguente all'intervento e il preesistente stato patologico invalidante; D) omessa informazione in relazione a un intervento che non ha cagionato un danno alla salute: se il paziente avrebbe comunque scelto di sottoporsi all'intervento, nessun risarcimento sarà dovuto; E) omessa/inadeguata diagnosi che non ha cagionato un danno alla salute del paziente, ma gli ha impedito di accedere a più accurati e attendibili accertamenti: se il paziente allega che dall'omessa, inadeguata o insufficiente informazione gli sono, comunque, derivate conseguenze dannose di natura non patrimoniale, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente, salva possibilità di provata contestazione della controparte, sarà risarcibile il danno da lesione del diritto all'autodeterminazione" (Cass. 28985/2019).

Per il risarcimento dei summenzionati pregiudizi, sarà onere del paziente dimostrare la relazione tra evento lesivo del diritto all'autodeterminazione, perfezionatosi con la condotta omissiva, che ha violato l'obbligo di informazione preventivo, e le conseguenze pregiudizievoli che ne sono derivate.

Infine, con riguardo al risarcimento del danno da lesione del diritto all'autodeterminazione, deve rimarcarsi che la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che: "in materia di responsabilità sanitaria, l'inadempimento dell'obbligo di acquisire il consenso informato del paziente assume diversa rilevanza causale a seconda che sia dedotta la violazione del diritto all'autodeterminazione o la lesione del diritto alla salute posto che, se, nel primo caso, l'omessa o insufficiente informazione preventiva evidenzia "ex se" una relazione causale diretta con la compromissione dell'interesse all'autonoma valutazione dei rischi e dei benefici del trattamento sanitario, nel secondo, invece, l'incidenza eziologica del deficit informativo sul risultato pregiudizievole dell'atto terapeutico correttamente eseguito dipende dall'opzione che il paziente avrebbe esercitato se fosse stato adeguatamente informato ed è configurabile soltanto in caso di presunto dissenso, con la conseguenza che l'allegazione dei fatti dimostrativi di tale scelta costituisce parte integrante dell'onere della prova - gravante sul danneggiato - del nesso eziologico tra inadempimento ed evento dannoso. Ciò non esclude comunque che, anche qualora venga dedotta la violazione del diritto all'autodeterminazione, sia indispensabile allegare specificamente quali altri pregiudizi, diversi dal danno alla salute eventualmente derivato, il danneggiato abbia subito, dovendosi negare un danno in "re ipsa" (Cass. III, 04/11/2020, n. 24471, Pres. A., Rel. O.).

Alla luce dei suddetti arresti giurisprudenziali, risulta necessario provare che il paziente, qualora fosse stato doverosamente informato di tutte le caratteristiche e dei rischi connessi al trattamento sanitario, avrebbe verosimilmente fatto scelte differenti, o quantomeno altre e più approfondite valutazioni, ad esempio avrebbe riflettuto adeguatamente sulla stessa opportunità di sottoporsi al trattamento; meditato su possibili scelte

alternative all'intervento e/o differenti opzioni farmacologiche; valutato se ricorrere a strutture mediche differenti, magari più vicine al proprio domicilio e meglio in grado di monitorarlo nel follow-up; prestato sicuramente maggiore attenzione ad eventuali segnali d'allarme nel post-operatorio; accettato almeno con più consapevolezza, se non con rassegnazione, la successiva evoluzione sfavorevole della propria condizione clinica.

Tutte queste possibilità formano il contenuto del "diritto all'autodeterminazione" del paziente, il quale, se ne viene privato, va comprensibilmente incontro a conseguenze del tutto inaspettate perché non prospettate dai sanitari e, proprio per questo, assolutamente rifiutate a livello psicologico, soffrendo così un danno non patrimoniale da lesione del suo diritto all'autodeterminazione, che deve essere risarcito in via equitativa.

Nel caso di specie, in base alle risultanze della CTU e ai dati istruttori sopra esaminati, si ritiene provata tale voce di danno in capo al F., da risarcire iure hereditatis in favore degli attori, nel caso di specie la moglie e la figlia, dal momento che il figlio M. ha rinunciato all'eredità paterna. Difatti, qualora adeguatamente informato circa la necessità di effettuazione di un follow-up post-operatorio, oltre alle chance di maggiore sopravvivenza, il paziente avrebbe potuto orientare diversamente le proprie scelte terapeutiche.

Si considera equo procedere alla liquidazione di tale voce di danno applicando le Tabelle di Milano nella loro ultima versione (2021), in relazione alla parte relativa al mancato consenso informato.

Difatti, i criteri tabellari elaborati dal Tribunale di Milano vengono utilizzati in tema di liquidazione di danni alla persona in adesione all'oramai affermato orientamento di legittimità (cfr. di recente Cass. n. 9556 del 2016; n. 20895 del 2015; n. 12408 del 2011). Infatti, "in materia di danno non patrimoniale, i parametri delle "Tabelle" predisposte dal Tribunale di Milano sono da prendersi a riferimento da parte del giudice di merito ai fini della liquidazione del predetto danno ovvero quale criterio di riscontro e verifica della liquidazione diversa alla quale si sia pervenuti" (Cass. Civ. sez. III, 28/06/2018, n. 17018), essendo congruo il riferimento ai valori inclusi nella tabella elaborata, ai fini della liquidazione del danno alla persona, dal Tribunale di Milano, in quanto assunti come valore "equo", in grado di garantire la parità di trattamento in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad aumentarne o a ridurne l'entità (Cassazione Civile, 07/07/2015, n. 13982).

In particolare, al punto E, relativo all'elaborazione dei criteri di liquidazione del danno all'autodeterminazione, le Tabelle di Milano prevedono al punto 3, un criterio della seguente entità, ossia: "danno all'autodeterminazione di grave entità: liquidazione da Euro 9.001,00 ad Euro 20.000,00 (35 sentenze su 102, pari a circa il 34% del campione, di cui 21 sentenze liquidano Euro 10.000,00) -grave entità dei postumi/sofferenze fisiche conseguenti al trattamento senza consenso, con necessità di uno o più trattamenti riparatori, anche invasivi; - grave sofferenza interiore conseguente al trattamento senza consenso e per la lesione del diritto all'autodeterminazione (ad es.: per la frustrazione di aspettative procreative, ecc.); - paziente non informato vulnerabile (per età, storia clinica, condizioni personali); - intervento non preceduto da consenso di tipo invasivo/non urgente/con diverse alternative terapeutiche; - grave violazione dell'obbligo informativo (ad es.: informazione completamente assente)".

Questa ipotesi si attaglia maggiormente alla fattispecie oggetto di causa e alla storia ed evoluzione clinica del F., di modo che, anche alla luce della grave sofferenza interiore, dell'età dello stesso, delle critiche condizioni personali, del ritardo nella scoperta della metastasi, e della vulnerabilità del paziente non informato, risulta equo liquidare per tale voce di danno un risarcimento pari a 20.000,00 Euro, in favore della moglie T.A.M. e della figlia F.T..

Difatti, F.M. ha rinunciato all'eredità del padre, come risulta dalla documentazione dimessa (cfr. doc. R). Pertanto, la relativa quota si accresce agli altri successori legittimi (moglie T.A.M. e figlia F.T.) ex art. 522 c.c., senza che detta circostanza possa influire sulla domanda così come proposta.

Non si ritiene, invece, di applicare il punto n. 4 delle Tabelle di Milano, relativo ad un danno all'autodeterminazione di eccezionale gravità, alla luce della considerazione sopra operata circa le ridotte speranze di vita del paziente, la circostanza per cui il CTU non abbia valutato in relazione allo stesso una

chance di guarigione nei 10 anni dopo la diagnosi, che come noto indica una concreta chance di totale guarigione, ma esclusivamente una chance di guarigione a 5 anni dalla diagnosi, che tradotta, implica una speranza di maggiore sopravvivenza, ma non di completa guarigione.

5. Interessi e rivalutazione

Il ritardato adempimento dell'obbligo di risarcimento del danno impone al debitore di: (a) pagare al creditore l'equivalente monetario del bene perduto, espresso in moneta dell'epoca della liquidazione, il che si ottiene con la rivalutazione del credito, salvo che il giudice l'abbia già liquidato in moneta attuale; (b) pagare al creditore il lucro cessante finanziario, ovvero i frutti che il denaro dovutogli a titolo di risarcimento sin dal giorno del sinistro avrebbe prodotto, in caso di tempestivo pagamento.

Quanto agli interessi, in particolare, va richiamato l'orientamento assunto dalla Suprema Corte, che, con una decisione a Sezioni Unite (v. Cass. Civ. 17.02.1995 n. 1712; più' di recente Cass, Civ., III, 27.07.2001, n. 10291; Cass. Civ., III, 15.01.2001, n. 492; Cass. Civ., III, 1.12.2000, n. 15368), ha posto fine ad un contrasto da tempo esistente in ordine alle modalità di calcolo di tali accessori nell'ipotesi di pronuncia risarcitoria da illecito, stabilendo che "qualora la liquidazione del danno da fatto illecito extracontrattuale sia effettuata "per equivalente", con riferimento, cioè, al valore del bene perduto dal danneggiato all'epoca del fatto illecito, e tale valore venga poi espresso in termini monetari che tengano conto della svalutazione intervenuta fino alla data della decisione definitiva (anche se adottata in sede di rinvio), è dovuto al danneggiato anche il risarcimento del mancato guadagno, che questi provi essergli stato provocato dal ritardato pagamento della suddetta somma".

Tuttavia, tale prova può essere data e riconosciuta dal Giudice secondo criteri presuntivi ed equitativi e, quindi, anche mediante l'attribuzione degli interessi ad un tasso stabilito, valutando tutte le circostanze oggettive e soggettive inerenti alla prova del pregiudizio subito per il mancato godimento del bene o del suo equivalente in denaro.

Sulle somme liquidate a titolo di capitale, pertanto, come devalutate alla data del fatto (12.03.2013) secondo gli indici ISTAT dei prezzi al consumo delle famiglie di operai ed impiegati e, quindi, rivalutate anno per anno secondo il medesimo indice, la convenuta dovrà corrispondere anche gli interessi al tasso legale.

Dal momento della sentenza, sino all'effettivo soddisfo, dovranno essere, inoltre, corrisposti, sulla somma totale sopra liquidata all'attualità, gli ulteriori interessi al tasso legale.

6. Danni patrimoniali

Gli attori hanno chiesto il ristoro di alcuni danni di natura patrimoniale, come conseguenza del danno subito dal congiunto.

Per quanto riguarda le spese funerarie, considerando che il danno evento di cui si discorre è il danno da perdita di chance di sopravvivenza, e il non il danno morte, e considerando che, secondo l'id quod plerumque accidit, vista l'età del F. e le sue condizioni di salute, oltre alla ridotta complessiva possibilità di sopravvivenza, i suoi familiari avrebbero in ogni caso dovuto sostenere le spese funerarie per lo stesso, non si ritiene che il solo "avvicinamento" temporale di tale spesa, sia sufficiente ad addossarne il costo all'Azienda convenuta, con rigetto della relativa domanda.

Per quanto riguarda le spese legali stragiudiziali e di mediazione obbligatoria, le spese legali per il procedimento ex art. 696 bis c.p.c., le spese per il CTU in sede di ATP, le spese per il CTP in fase stragiudiziale, e le spese per il CTP nel procedimento ex art. 696 bis c.p.c., di cui ai docc. U-T-H-E-12 ed M prodotti dagli attori, si ritiene che le spese stesse siano dovute in quanto congrue rispetto all'attività stragiudiziale e giudiziale svolta, anche alla luce della sent. SU Cass. 16990/2017.

Le stesse, considerato trattarsi di attività stragiudiziale e giudiziale svolta dell'interesse degli attori dovranno essere poste interamente a carico della parte convenuta.

7. Le spese di lite

Per quanto riguarda, invece, le spese di lite del presente giudizio, le stesse devono essere compensate tra le parti nella misura del 20%, visto il parziale rigetto delle domande attoree, ponendo la quota residua in capo alla parte convenuta. Le stesse si liquidano come da dispositivo, con riferimento al valore dell'accolto, ai sensi del D.M. n. 55 del 2014, in base al valore della causa di cui al decisum e all'attività difensiva svolta, con applicazione di aumento del 40% tenuto conto della complessità delle questioni trattate e dell'attività difensiva svolta.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così provvede:

1) Condanna l'Azienda U. (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, a corrispondere iure successionis ad A.M.T. e a T.F., la somma di 20.000,00 Euro, oltre interessi al tasso legale dalla data del fatto ad oggi sulla somma devalutata al momento del fatto (12.03.2013) secondo gli indici ISTAT dei prezzi al consumo delle famiglie di operai ed impiegati e, quindi, rivalutata, anno per anno fino ad oggi, secondo il medesimo indice, oltre successivi interessi al tasso legale sull'importo totale così calcolato sino al saldo;

2) Condanna l'Azienda U. (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, a corrispondere iure proprio ad A.M.T. la somma di 65.901,00 Euro; a T.F. 49.425,76 Euro; a M.F. 47.366,36 Euro; a T.D. 26.772,29; a T.A., 26.772,29 Euro; a E.F. 2.000,00 Euro, ad E.F. 2.000,00 Euro, oltre interessi al tasso legale dalla data del fatto (12.03.2013) ad oggi sulla somma devalutata al momento del fatto secondo gli indici ISTAT dei prezzi al consumo delle famiglie di operai ed impiegati e, quindi, rivalutata, anno per anno fino ad oggi, secondo il medesimo indice, oltre successivi interessi al tasso legale sull'importo totale così calcolato sino al saldo;

3) Condanna l'Azienda U. (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, a corrispondere agli attori in solido le spese legali stragiudiziali e di mediazione obbligatoria, le spese legali per il procedimento ex art. 696 bis c.p.c., le spese per il CTU in sede di ATP, le spese per il CTP in fase stragiudiziale, e le spese per il CTP nel procedimento ex art. 696 bis c.p.c., di cui ai docc. U-T-H-E-12 ed M prodotti dagli attori, e come nei documenti stessi indicate;

4) Dichiara compensate nella misura del 20% le spese di lite e pone in capo all'Azienda U. (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, la quota residua (80%), con onere di rifusione delle stesse agli attori in solido, spese che si liquidano qui per l'intero in Euro 29.941,80 per compensi, ed Euro 570,00 per esborsi, oltre al rimborso forfettario del 15%, Iva e Cpa come per legge.

Si comunichi.

Così deciso in Rovigo, il 25 luglio 2022.

Depositata in Cancelleria il 26 luglio 2022.

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